La Pietà Rondanini, come l’avrei voluta raccontare a mio nonno

di Mercedes Auteri

(Foto della famiglia Auteri)

La prima volta che ho visto la Pietà Rondanini (1552-1564) è stata in una foto dei miei nonni di ritorno a Catania da un viaggio a Milano.

L’opera di Michelangelo era al Castello Sforzesco, a conclusione di visita, nell’allestimento storico dei BBPR che poi avrei studiato sui libri di museologia, prima che la collocassero -unica opera- in un altro spazio del Castello, nell’attuale sede dell’ex Ospedale spagnolo nell’allestimento di De Lucchi dove si presenta di spalle, a salvaguardare l’intimità e la sorpresa, nel suo incompiuto volume tridimensionale che si può apprezzare meglio girandovi intorno. 

In quella foto c’era quel giovane nudo dal corpo affusolato che guardava i miei nonni e gli prestava un poco della sua luce illuminandoli da sinistra. Dalla foto non si vede perché è tagliata male, ma io la scena l’avevo vista tutta: il ragazzo sorregge la madre che gli grava sulla schiena e lo fa incespicare. O forse no, è la mamma che trattiene il corpo morto con tutte le sue forze per non farlo cadere? Eppure lui precipita sempre più verso la morte e lei con lui. Da quel momento mi chiedo sempre questa cosa qua. E la chiedo anche ai miei studenti ogni volta che la spiego o ad amici e parenti ogni volta che andiamo a trovarla: nella Pietà Rondanini è la madre che sorregge il figlio o il figlio che trattiene la madre dal cadere? Nell’ordine naturale delle cose, nessuna madre dovrebbe sopravvivere al figlio. E però neanche un figlio piccolo alla perdita della mamma. Michelangelo, che aveva perso la sua a 6 anni, lo doveva avere pensato tante volte. Così, la sua mamma ragazzina è nella perfezione della Pietà del Vaticano mentre una lacrima le riga il volto e anche nei ripensamenti della Pietà Rondanini, quando si gira verso di lui per poggiargli la testa sui capelli, come si fa coi bambini, per sentirne il profumo, per avvertirne il calore. Come faceva sempre mia nonna con me quando avevo la febbre. Come ho fatto io con lei, per l’ultimo bacio, sulla sua fronte ormai gelida come il marmo di Carrara. 

Michelangelo, Pietà Rondanini, 1552-1564, Milano, Castello Sforzesco
(foto dal web)

Eppure Michelangelo si ribella alle leggi della fisica e della materia. Gesù non cade “come corpo morto cade” e c’è la traccia di quel ripensamento: la testa di Maria prima guarda a destra ma poi si china a sinistra verso il corpo del suo ragazzo che prima inciampa ma poi ancora sorregge. Del resto lo aveva già fatto con il Mosé, per quel testa dura di Giulio II che lo aveva fatto ammattire, gliel’aveva fatto torcere quel busto come gli pareva a lui. E l’aveva fatto prima ancora col David, con quel marmo di quattro metri, mezzo rotto e già sbozzato, ché nessuno era riuscito a farci niente e lui ne aveva fatto il simbolo della Repubblica contro la Tirannide: il piccolo Davide che era così intelligente da essere destinato a diventare lui il gigante (e di Golia nemmeno l’ombra). Prima e dopo Michelangelo colpire di scalpello era come scrivere con inchiostro indelebile, con lui invece si cancellava e si rifaceva. Perché lo spirito per lui contava più della materia e lui ascoltava il marmo e l’anima, anche dentro alla pietra, sceglieva la forma. Con la Pietà di Firenze non gli era riuscito di cambiarla, per un’imperfezione del marmo, e l’aveva fatta a pezzi, ma quel banchiere di un Bandini se l’era fatta rincollare dallo scultore Calcagni e così l’autoritratto che Michelangelo s’era fatto come Nicodemo per la sua tomba (come farà anche Tiziano pochi anni dopo) s’è salvato in quella seconda Pietà, oggi all’Opera del Duomo di Firenze. 

Michelangelo, Pierà Bandini, 1547-1555, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo (foto dal web)

C’era troppa folla però nella Pietà Bandini, ci voleva qualcosa di più intimo per la tomba di Michelangelo. La mamma e il figlio dovevano tornare di nuovo soli, come alla nascita, come nella Pietà del Vaticano. Quella della perfezione, l’armonia, il realismo del marmo che diventa carne e vene e lacrime ma anche fantasia dantesca: “figlia del tuo stesso Figlio, la più umile e la più alta di tutte le creature, che ha nobilitato la natura umana a tal punto che il suo Creatore non disdegnò di diventare sua creatura” (come riportò Paolucci, allora Direttore dei Musei Vaticani) e tanto da risultare lei quattordicenne e lui trentatreenne come nel momento più importante delle loro vite: lei quando l’ha partorito, lui quando è morto. La prima Pietà, quella per San Pietro, quella che tutti amano da subito: l’insuperabile. 

L’ultima invece, la Rondanini, nella biografia dell’artista di Ascanio Condivi non è manco menzionata e Vasari la cita solo come abbozzo “di un’altra Pietà, varia da quella, molto minore”. Nemmeno il notaio che va a inventariare le opere di Michelangelo dopo la sua morte la riconosce come Pietà ma come una “statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite” e forse nemmeno sua, tanto che il marchese Rondanini e gli eredi se la tengono fino alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, quando l’allora Direttrice di Brera, Fernanda Wittgens, fa pressioni al Comune per acquistarla (lei, che ne aveva riconosciuto la modernità, così come l’artista britannico Henry Moore che la definisce “la scultura più commovente mai creata”). 

Michelangelo, Pietà, 1497-1499, Basilica di San Pietro in Vaticano (foto dal web)

Una figura sopra l’altra, attaccate e non finite: già qui era sintetizzata tutta l’iconologia dell’opera. Attaccate come Enea con Anchise, il figlio che raccoglie gli avi sulle sue spalle? oppure attaccate come quando dopo una caduta la mamma rimette in piedi il bambino per vedere se le gambe funzionano ancora?

L’iconografia classica della Pietà è quella di una “deposizione” del corpo (dalla croce a terra) e invece quei due si ostinano in piedi, si sostengono, nessuno dei due molla l’altro e muore veramente e se cadranno sarà insieme. Prima che arrivasse in Italia nel’400 questo tema della deposizione, tanto caro ai tedeschi, s’era visto poco ma Michelangelo ne è ossessionato. Negli ultimi mesi della sua vita non c’è giorno in cui non ci pensi, ne fa dei bozzetti (oggi all’Ashmolean Museum di Oxford) e lo scrive anche in alcune lettere, dice che è la sua opera testamento. Forse quel braccio di sinistra che non gli era piaciuto l’avrebbe fatto saltare se avesse avuto tempo, potendo riequilibrare la verticalità verso il basso, ma le parti appena sbozzate, come nei Prigioni del Louvre, sarebbero rimaste lì a ricordarci la verità del corpo: che la perfezione non esiste e ognuno di noi è un’opera in divenire, incompiuta, che anela al non-finito, all’infinito, e non a concludere.

I loro occhi si sono posati sui miei nonni – e quelli loro continuano a posarsi su di me attraverso questa fotografia -, su mio padre, su mio figlio, sugli altri che erano accanto a me tutte le volte che torno a guardarli. Una storia che non conclude e che rende universale questo amore tra chi va e chi resta. A mio nonno sarebbe piaciuta questa storia, per questo l’ho scritta. A mia nonna no, probabilmente l’avrebbe fatta piangere, si commuoveva per molto meno, proprio come me.