Alavò o alavo’

di Francesco Giuffrida (Studioso del canto popolare e sociale)

Alavò, alalò, laò, fa’ la vo, fa’ la ’o, avò  … per un siciliano non possono sorgere equivoci: stiamo parlando di ninne nanne. E praticamente tutti i vocabolari siciliani concordano: sono tutte voci ed espressioni con cui il popolo siciliano chiama le ninne nanne, l’invito al sonno, il sonno stesso dei neonati e dei bambini. Ma se provassimo a chiedere a una mamma perché la ninna nanna, al canto della quale ha appena addormentato il suo bimbo, si chiama alavò, difficilmente avremmo una risposta. Cerchiamo allora di fare chiarezza e trovare una spiegazione soddisfacente, un’ipotesi plausibile.

Il primo a occuparsi dell’etimologia di alavò sembrerebbe essere stato il noto vocabolarista Michele Pasqualino nel suo Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino (Palermo 1785 – 1795). Il Pasqualino fa derivare il termine alavo’ – che lui trascrive come alaò – dal latino Lallo, as, are: cantare la ninna nanna. “Onde da lallo, quasi lallò e per sincope, allò, alaò”. Aggiunge che i greci indicavano le nenie per addormentare i bambini come catabaykalifis, dal verbo bacalaò: da qui “forse alaò lasciata la prima sillaba”. Salvatore Giarrizzo, due secoli dopo, nel suo Dizionario etimologico siciliano, Herbita, Palermo 1989 registra il termine come alavò, ma accetta la derivazione dal latino lallare.

Anche se Vincenzo Mortillaro, autore del Nuovo Dizionario Siciliano che vide varie edizioni dal 1838 fino al 1876, definisce – nell’Avvertimento premesso al 1° volume della prima edizione – quelle del Pasqualino “insulse e strabiliate etimologie, ove non sieno sognate, …”il Pitrè (Canti popolari siciliani, vol.II, Palermo 1891) cita il Pasqualino, nella nota 3 della pagina 1: “Intorno alle origini dell’a-la-vò, vò-vò, a-la-lò, alaò, laò, aò, oò, ò, voci usate in tutta la Sicilia, piacemi qui riportare quel che ne dice il vocabolarista Pasqualino” E aggiunge di seguito quanto da noi riportato poco sopra. Poi, sempre nella stessa nota, continua “Però a questo mi piace aggiungere quanto sul proposito mi si fa osservare da un valente grecista. I Dorici che abitarono la parte meridionale della Sicilia chiamarono l’aurora Aòs invece di Eòs; quindi le donne nel canterellare ai bimbi, per conciliare il sonno, dicevano: dormi, figlio, insino all’aurora”.

Noi non possiamo che fare nostre le parole che la Professoressa Carmelina Naselli scrive a questo proposito (Saggio sulle ninne-nanne siciliane, Prampolini, Catania 1948): “La ninna-nanna si indica quasi universalmente in Sicilia col termine vo’, termine che, difficilmente spiegabile con le etimologie dotte proposte da qualche vecchio vocabolarista e da qualche studioso, riesce invece assai chiaro ricondotto alla sua origine popolare, data del resto come ovvia dal Guastella. Questi, accennando alla cantilena o ritornello Vo’ e fa la vo’, che punteggia di pause il canto della ninna-nanna, disse che essa è <<abbreviazione di voga e fa la voga, perché l’idea della cuna suscita spontaneamente quella della nave>>”. E se riteniamo inutile insistere sui nomi del ‘vecchio vocabolarista’ e dello ‘studioso’ crediamo invece giusto approfondire l’intuizione di Serafino Amabile Guastella; la citazione della Naselli è tratta da Ninne nanne del Circondario di Modica, Piccitto e Antoci, Ragusa 1887, pubblicazione che ci offre più di uno spunto di riflessione. Alla pagina XII per esempio Guastella cita in nota un indovinello (diffuso nei paesi degli Iblei) che qui di seguito riproponiamo:

Aiu na varca vistuta di biancu,

Ca camina senz’acqua e senza vientu:

L’armali ca sta fora va cantannu

L’armali ca sta dintra va ririennu.

(Ho una barca vestita di bianco,/ che cammina senza acqua e senza vento:/ l’animale che sta fuori canta/ l’animale che sta dentro ride.)

Indovinello, è bene sottolinearlo, che ha innumerevoli varianti per tutta la Sicilia, varianti provenienti sia da città e paesi di mare che da città e paesi che col mare hanno poca dimestichezza; ecco, per esempio, lo stesso indovinello raccolto a Salaparuta, nella Valle del Bèlice (Pitrè 1891, n. 879):

C’è na varcuzza ch’è fatta di tila,

Cu ventu e senza ventu sempri mina,

La carni chi cc’è dintra chianci e riri

La carni ch’è di fora canta e sona.

(C’è una barchetta che è fatta di tela,/ col vento o senza sempre è sospinta,/ la carne che c’è dentro piange e ride/ la carne che è fuori canta e suona.)

naca

La soluzione è sempre la stessa: la culla (anzi la naca), col relativo dondolio, col bimbo dentro che ride o piange e la mamma fuori dalla culla che canta e suona. È bene qui precisare che parlando di naca o culla stiamo parlando della naca a vento, cioè di una culla di stoffa, a forma appunto di barca o navicella, assicurata a due anelli infissi nel muro per mezzo di uncini e corde che corrono lungo le sponde. La naca è tenuta bene aperta da due forcelle di legno o canna, ma anche da un semplice bastone, in qualche caso istoriato, uno ’alla testa’ e uno ’ai piedi’; può completare il tutto un cerchietto (circu) per adattarvi un velo o una qualche copertura. La naca così costruita andava piazzata sopra il letto dove dormiva la mamma che, con un laccio legato alla culla stessa, poteva ’annacare’ l’infante senza alzarsi dal letto. Ovviamente quando la culla diventa di legno e viene sistemata per terra, la forma, il movimento e, di conseguenza, le ninne nanne, le alavo’ non cambiano. Cambiano lievemente quando il bambino è tenuto in braccio: cambiano perché mutano, anche se di poco, i movimenti della madre; e viene potenziato il gesto della voga, il portare le spalle in avanti per poi tornare indietro, senza scatti, dolcemente. Ed ecco, a rafforzare l’idea della voga, i primi quattro versi di una ninna nanna – anche questa con mille varianti e soprattutto prestata ai giochi per i piccoli – raccolta a Patti (Vigo 1870/74, n. 2230):

Voca, voca marinaru

Ca lu celu non è chiaru;

Pri lu sonnu chi calò

Fa la ninna e fa la vò.

(Voga, voga marinaio/ perché il cielo non è chiaro;/ per il sonno che è arrivato/ fai la ninna fai la vò.)

E nelle ninne nanne, nelle alavo’ (a questo punto possiamo scriverlo sempre con l’apostrofo), ma anche nei canti d’amore del popolo siciliano, il mare, le sirene, le onde, hanno un posto di rilievo. Sfogliando l’opera di Guastella già citata troviamo:

A la vo’, figghia mia, figghia d’amari,

La naca ti cunzai supra lu mari.

Vo’ e fa la vo’ …

(A la vo’ figlia mia figlia d’amare,/ Ti ho preparato la culla sul mare./ Vo’ e fa la vo’ …)

Supra lu mari e supra la marina,

Vui siti ’na rusedda damaschina.

(Sopra il mare e sopra la marina,/ Voi siete una piccola rosa di Damasco.)

Figgia mia, figgia risiata,

Comu lu vientu va e bbeni la naca.

(Figlia mia figlia mia desiderata,/ Come il vento va e viene la culla.)

Figghia mia, facciuzza tunna,

‘Mmienzu lu mari m’abbattiti l’unna.

(Figlia mia faccina rotonda,/ In mezzo al mare rompete l’onda.)

Si’ picciridda, e si’ cosa d’amari

Vui siti la varcuzza di lu mari.

Sei piccola e sei cosa da amare/ Voi siete la barchetta del mare.)

E zita ccu Gesuzzu l’hann’a ffari:

Cci conza lu lituzzu supra mari.

(E fidanzata con Gesù vi devono fare:/ Gli prepara il letto sul mare.)

 

E continuiamo citando solo le più incisive e poetiche; dai Canti di Capizzi (Me) di Marianna Fascetto (1988):

Canciasti la sirena di lu mari,

ppi na ladiazza pinta di valòri.

(Hai cambiato una sirena del mare,/ Per una bruttona segnata dal vaiolo.)

 

Da Stornelli popolari siciliani di Giuseppe Bonafede (Ragusa, 1927):

Lu vientu a mmari

Naca la varchitedda senza veli

Ma lu figgiu la mamma l’à ’nnacari!

(Il vento a mare/ Dondola la barchetta senza vele/ Ma il figlio è la mamma che deve cullarlo!)

Virdi ruviettu

L’unna marina annaca lu caìttu

Ccussì, figgiu, vi nacu ni stu piettu .

(Verde rovo/ L’onda marina fa dondolare la barca/ Così, figlio, vi cullo su questo petto.)

 

Da I canti della tradizione popolare di Milena (Cl) di Arturo Petix (1987):

Nti sta vanedda mi trùovu a passari

Mi vùontu e viu … ‘na Ninfa d’amuri …

In pìettu è l’unna e l’ucchiuzzi lu mari

La frunti è cielu e la faccu lu suli!

(In questa stradina mi trovo a passare/ Mi volto e vedo … una ninfa d’amore …/  In petto ha l’onda e negli occhi il mare/ La fronte è il cielo e la faccia il sole!)

 

Da Canti della nostra terra di Salvatore Riggio Scaduto (1989), canti delle colline nissene:

Sirena di lu mari mmezzu l’urmi

Dunni camini tu la terra sparmi;

( Sirena del mare in mezzo alle onde/ Dove cammini tu la terra adorni;)

 

Potremmo continuare a lungo, spigolando tra le migliaia di canti raccolti in Sicilia negli ultimi due secoli; ma ci fermiamo, perché crediamo che gli esempi siano più che sufficienti  per confermare la plausibilità della spiegazione del termine alavo’ data da Serafino Amabile Guastella. Anche se il primo riconoscimento ’ufficiale’ è quello della Professoressa Naselli, a quasi cinquant’anni dalla morte del Barone di Chiaramonte Gulfi; e undici anni dopo anche Antonino Uccello, il futuro fondatore della Casa-Museo di Palazzolo Acreide, citerà la derivazione del termine alavo’ attribuendola correttamente al Guastella. Resta poco spiegabile invece il silenzio del più grande raccoglitore di tradizioni popolari siciliane, Giuseppe Pitrè: eppure la nota che abbiamo riportato appartiene a una pubblicazione del 1891, quattro anni dopo la pubblicazione del libro di Guastella. E che Pitrè non conoscesse l’opera è assolutamente impensabile, avido com’era di apprendere tutto quello che veniva prodotto nel campo di quella che allora lui stesso aveva battezzato demopsicologia. E, in ogni caso, tutti coloro che pubblicavano un qualunque scritto riguardante le tradizioni popolarti siciliane a Giuseppe Pitrè inviavano copia, quando addirittura non gli dedicavano l’opera prodotta: E Il barone Guastella non faceva certo eccezione. E allora? Un disaccordo che, per rispetto, amicizia, non ha voluto sottolineare? O piccole invidie, per una fortunata o geniale intuizione di un ’concorrente’, da cui nemmeno i grandi intellettuali sono immuni? Non siamo in grado di rispondere a questa domanda.

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Possiamo però chiudere con una ninna nanna che, grazie alla eccezionale interpretazione di Rosa Balistreri (qui in un ritratto a matita di Rita Mavilia), è entrata nei cuori di tutti gli amanti del nostro canto polare: raccolta e pubblicata da Corrado Avolio (Canti popolari di Noto, 1875) è arrivata fino a noi in svariate versioni, completa di melodia.

 

Avo’ l’amuri miu ti vogliu beni

L’ucchiuzzi di me’ figlia su’ sireni avo’

Chi havi la figlia mia ca sempri cianci

Voli fatta la naca ’mmenzu l’aranci avo’

Specchiu di l’occhi mia facci d’aranciu

Ca mancu ppi ’n tesoru iu ti canciu avo’

Figlia di l’arma mia facciuzza bedda

La mamma t’havi a fari munachedda avo

E munachedda di lu Sarvaturi

Unni ci stannu i nobbili e i signuri avo’

Ora s’addummiscìu la figlia mia

Vardatimmilla vui Matri Maria avò.

(Avo’ l’amore mio ti voglio bene/ Gli occhietti di mia figlia sono sereni/ Che ha la figlia mia che sempre piange/ Vuole fatta la culla tra gli aranci/ Specchio degli occhi miei faccia d’arancia/ Nemmeno per un tesoro io ti cambio/ Figlia dell’anima mia faccina bella/ La mamma ti deve fare monachella/ E monachella del convento del Salvatore/ Dove stanno le figlie dei nobili e dei signori/Ora si è addormentata la figlia mia/ Pensateci voi Madre Maria).